PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Don Alberto intervista Mons. Sigalini 29-06-2018

Intervista rilasciata da S.E. mons. Domenico Sigalini il 29-06-2018 durante la festa patronale della Parrocchia di San Pietro Aposto in Bolgare (BG).

Sollecitato da Don Alberto, nell'intervista mons. Sigalini affronta i temi della nostra quotidianità, ma anche argomenti dell’attualità nazionale e mondiale , sempre con lo sguardo rivolto all'uomo e al suo rapporto con i fratelli secondo gli insegnamenti della Parola.

Una analisi lucida e attenta del nostro tempo.

 

Di seguito un estratto.

D: Credo non sia la prima volta che partecipi a delle feste popolari, sia nella tua diocesi di origine (abbastanza simile alla nostra, visto che sei di Brescia) sia nella diocesi di Palestrina dove hai svolto il tuo ministero. Cosa pensi delle feste popolari? Hanno ancora un valore oppure rischiano di essere legate a un mondo nostalgico, a un tempo che non c’è più, e quindi di non dire più niente all’uomo di oggi?

R: Devo proprio fare la distinzione tra la nostra tradizione lombarda e quella del Centro e Sud Italia. C’è un grande abisso tra queste due realtà: solo per darti dei numeri, io a Dello (mio paese natale) ho fatto due processioni in un anno (San Rocco e San Giorgio) oltre al Corpus Domini. A Palestrina invece ne facevano una ventina, a cominciare dalla Vigilia di Natale con Santa Vittoria e poi si andava avanti fino a San Gabriele dell’Addolorata. il primo anno che ero vescovo dovevo andare alla Giornata Mondiale della Gioventù, ed era proprio la settimana in cui c’era la festa di Sant’Agapito martire, una festa importante. Un laico mi si avvicina e mi dice: “Eccellenza, se lei non fa la processione a Sant’Agapito dimentichi di fare il vescovo a Palestrina”. Allora ho dovuto fare sia l’uno che l’altro: ho fatto la processione e poi sono partito per la Polonia! Da quelle parti, una pratica religiosa più meditata, più razionale, quasi non esiste, esiste soltanto in alcune élite: c’è sempre questa manifestazione popolare abbastanza sentita, ci sono alcune Confraternite che ci tengono alle processioni e quindi preparano, chi il Santo, chi i disegni per terra per il Corpus Domini fatti con i fiori e con la segatura… tutto un mondo gira intorno a questi momenti, che sono sicuramente capaci di esprimere un minimo di fede, ma non vanno troppo in profondità perché l’idea è quella dello spettatore che vede passare una scena. Qui, invece, quelle poche processioni che ho fatto, non vedono una grande partecipazione neppure a livello di spettatori: tu passi con la tua bella processione molto ordinata, c’è gente molto motivata, ma non c’è un afflato popolare. La tendenza, insomma, qui è quella di non esporsi con gesti religiosi se non quelli classici, qui da noi non è la processione il luogo in cui si manifesta la fede; esistono invece altri modi di esprimere la propria fede in pubblico, che sono quelli della presenza dei luoghi dell’istituzione, della scuola. Una fede più matura, meno folcloristica, sicuramente, e forse anche un pochino più meditata.

D: Questo potrebbe voler dire che la Chiesa del Centro Sud ha un sostrato religioso a livello antropologico più forte rispetto a noi, oppure sono proprio modalità diverse di esprimere la fede che comunque anche da un punto di vista antropologico, e non solo numerico, da noi sembra aver perso molto?

R: A me pare che sia proprio un modo diverso di esprimersi, non è questione di “più” o di “meno”. Io ci tengo a dire che la presenza di alcuni segni è assolutamente necessaria, perché altrimenti si nasconde tutto. Io ho apprezzato stamattina la presenza del Sindaco a messa. Dicevo spesso ad alcuni Sindaci: “Tu non sei credente, però tu hai accettato di diventare Sindaco di questo paese che ha questo patrono, e lo ha da tanti secoli, per cui devi accettare di partecipare a questi gesti. Magari non ti fai il segno di croce, però onestamente tu sei lì a rappresentare il tuo popolo”. Sono elementi che all’interno di una struttura hanno il loro significato.

D: Cambiamo tema. Volevo fare due parole sul Sinodo dei Giovani che il Papa ha convocato per ottobre a Roma. Dall’alto della tua esperienza passata come Direttore Nazionale del Servizio per la Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana, quale ti sembra sia la situazione a livello giovanile oggi dal punto di vista della fede?

R: Abbiamo un mondo giovanile che è molto diverso anche solo da dieci anni fa. Il mondo giovanile oggi vuol quasi dimostrare che si può vivere anche senza fede e stare bene. Non è che siano atei o non atei, ma per loro la fede non è un fatto assolutamente importante, se non dentro alcuni percorsi educativi molto precisi, come sono quelli delle associazioni e dei movimenti, che riescono ad aggregare attorno a degli ideali molto concreti. Dall’altra parte però qualche sociologo e anche qualche teologo crede che questo fatto che i giovani non siano più capaci di dialogare con la loro fede in termini seri, sia dovuto a un mondo adulto che non è stato capace di trasmettere niente; per cui, c’è una generazione di 35-40enni che stenta a fare vedere al giovane che la fede è una cosa seria e importante. Ci si riduce sempre a un “vai a Messa, comportati bene”, però un giovane non ha davanti a sé un adulto che gli fa vedere concretamente che la fede è un bell’investimento da fare. Un altro dato che qualcuno ha voluto fare emergere è che per esempio, il mondo femminile e il mondo maschile dei 30-40enni non si differenziano più, nel loro genere, rispetto alla fede: prima erano le donne che credevano di più e gli uomini un po’ di meno, adesso si è poco credenti alla stessa maniera, quindi non c’è più la mamma che si preoccupa in casa di educare il bambino alla fede, abbiamo una grande mancanza di conoscenza, non si è più capaci di fare il segno di croce se non andando al catechismo, e questo tendenzialmente riduce la presenza di fatti religiosi seri all’interno dei gruppi giovanili. Che poi ci siano dei giovani capaci di riformulare la loro vita grazie a esperienze belle che riescono a fare e che gli adulti sono ancora in grado di proporre loro, questo è pure vero: magari dopo una vita buttata via nelle stupidate, a un certo punto riprendono seriamente, magari per un’esperienza di servizio come è quella del servizio civile. Tanti ragazzi hanno ricostruito la loro esperienza di fede mettendosi a servizio degli altri in maniera gratuita. Credo soprattutto che noi abbiamo abbandonato l’aspetto formativo. Non possiamo limitarci a dire le cose ai giovani durante la messa: ci vorrà qualche altro momento! La nostra mossa intelligente sarebbe quella di andare proprio in questa direzione. E riguardo al Sinodo, sono convinto che sarà una bella esperienza: ho letto l’Instrumentum Laboris (la traccia di lavoro, N.d.R.) che è appena uscito, ed è molto chiaro, deciso. Ha dato la parola ai giovani, ci sono proprio i virgolettati di tanti loro interventi, hanno fatto non so quante migliaia di interviste, c’erano parecchie possibilità di intervenire sul web, per cui non si può più fare a meno di un metodo che è quello di interpellare direttamente le persone. Ecco, questo è quello che noi abbiamo un po’ smesso di fare perché ci sembra sempre di non agganciare mai i giovani. Loro invece con questi strumenti sono riusciti a far capire quale è il loro modello di vita, che tipo di Chiesa vogliono. Per esempio, insistono molto sulle relazioni: vuol dire che hanno bisogno di relazioni, non di rimproveri, di qualcuno che si mette al loro fianco, li accompagna e fa loro vedere dove andare, senza dire loro: “Io voglio riempire l’Oratorio o la Chiesa”. Io voglio vedere se tu sei felice in questa vita, voglio saper cosa stai scegliendo, e ti aiuto a fare queste scelte! Qui allora occorrerebbe una pastorale di accompagnamento. Adesso sentiremo cosa dicono i Padri Sinodali e cosa salterà fuori da quello che dirà il Papa: però sono convinto che questo sinodo interverrà a cambiare radicalmente i nostri rapporti e il tentativo di dialogare con il mondo giovanile.

D: Qui non siamo ovviamente nel salotto di Michele Santoro o di Lilli Gruber, nei quali hai avuto modo anche di incontrare alcuni politici che non sempre rispondono in maniera tranquilla e beata alle provocazioni che vengono loro fatte. La mia domanda è molto semplice: cosa ti dice la situazione politica attuale in Italia?

R.: Intanto, la prima cosa che devo dire è che rispetto assolutamente le persone che sono state elette dal popolo italiano; quindi, se c’è democrazia io devo prendere quello che il popolo italiano sceglie e collocarlo dentro la struttura di Stato che c’è, senza nessuna prevenzione. Per quello che vedo, ho una grossa paura: che questo insieme di lotte - ancora fatte, secondo, me a scopi elettorali, perché non pare finita la campagnaelettorale anche se sono passate le elezioni - indeboliscano l’attenzione della gente sulla “cosa pubblica” e la facciano diventare anche tendenzialmente “insopportabile”, cioè che non sopporti più i temi di politica e di attualità. Ad esempio, l’esperienza dell’accoglienza, è una cosa che è sempre stata normale per gli italiani, pur con tutte le difficoltà del caso: si devono rispettare le visioni politiche di tutti, ma a un certo punto questi modelli con i quali pare che stiamo “buttando fuori” una volta gli zingari, una volta la nave che arriva, un’altra volta quest’altro, danno al mondo la sensazione che questo sia il modello sociale nel quale tutti vogliamo vivere. Più che le leggi particolari che si faranno, che non so come saranno, occorre un po’ di saggezza per capire e riconoscere questa mentalità che sotto sotto sta rovinando il tessuto sociale e ideale degli italiani. Faccio un esempio molto banale che ci fa capire qualcosa di più: l’avvento delle televisioni private che fanno capo ad alcune lobbies e che hanno cominciato a diffondere tutta una serie di mentalità sul rapporto uomo/donna, sul vivere all’avventura, sulla ricerca della ricchezza, ecc., ha creato nella mentalità della gente un abbassamento del livello morale, non tanto sul concetto “peccato o non peccato”, ma sulla capacità di costituire un’umanità che avesse un orizzonte di senso valoriale. Ebbene, io ho paura che la politica che viene fatta adesso crei un trend di questo tipo, che ci porta verso l’intolleranza, verso lo sciovinismo. Oggi farà scuola questo, un giorno quello, e poi quell’altro ancora: non essendoci una precisa presa di posizione valoriale, ho paura che si abbassi il livello della consapevolezza di essere una umanità che si fa fratellanza. Questo modo di rapportarsi alla gente parlando “alla pancia” soltanto, cioè alle emozioni che vive, è un fatto che alla lunga diventa negativo, diventa demotivante. Tutto questo poi viene a essere ancora aggravato dal fatto che ogni attività politica è sempre attorniata da corruzione: e qui non mi pare di avere visto dei cambiamenti rispetto alle “ruberie”… rubano tutti, continuamente, magari anche solo alzando silenziosamente le tasse! Alla fine, però, ci troviamo davanti ancora e sempre questi qui: bisogna, una buona volta, sbatterli dentro, anche per dare peso, come cristiani, a quello che dice Papa Francesco riguardo la corruzione, che è diventata una cosa esagerata.

D: Siccome hai citato Papa Francesco, questa è la mia ultima domanda: la Chiesa di Papa Francesco. Tu hai vissuto la Chiesa di Giovanni Paolo II in diretta quando hai avuto modo di preparare il Giubileo dei Giovani a Tor Vergata, hai vissuto quella di Benedetto XVI, perché credo che ti abbia nominato lui Vescovo a Palestrina; hai vissuto - c’ero anch’io in quei giorni a Roma - il dramma della rinuncia di Benedetto, e poi l’arrivo pieno di speranza di Francesco. Sulla scorta di questo cammino, qual è la Chiesa di Papa Francesco?

 R.: In realtà, mi ha nominato vescovo Giovanni Paolo II. Sono stato l’ultimo mandato da lui in una diocesi italiana... ho degli amici molto bravi, che mi vogliono bene, che mi dicono che mi ha nominato perché era vecchio e non capiva più niente... A parte gli scherzi, a me pare che Francesco ci stia dando un elemento di continuità. Tutti parlano di rottura col passato: non è assolutamente vero, perchè se ce ne è uno che sta facendo tutto quello che già Paolo VI aveva creato dopo il Concilio è proprio Papa Francesco. Lo prende addirittura alla lettera, prende i suoi slogan, prende la sua preoccupazione e il suo stile, quindi in questo senso c’è una continuità. C’è anche una discontinuità nel senso che si è messo in campo lui, in prima persona, nell’essere propositivo con scelte che anche vanno un po’ controcorrente. Questo ha creato un po’ di disagio all’inizio, e credo forse un po’ ancora adesso. Tra l’altro, va detto che l’infallibilità del Papa non è nelle interviste che fa sugli aerei. A noi vescovi una volta lo diceva: “Questo lo dice Bergoglio, prima che lo dica il Papa ce ne vorrà, perché io voglio sentire i Vescovi, voglio pregarci sopra e digiunare prima di definire una verità”. Lui invece facilmente esce con battute che destabilizzano un po’, ma se la persona è attenta a leggere dentro la sua vita, coglie che sono battute che dietro hanno anche una fonte di verità, ed è quella che a lui preme; ossia, Francesco vuole destabilizzarci per poter trovare un’altra stabilità, più matura e più interessante. Sto rileggendo un’altra volta Evangelii Gaudium che è veramente il suo progetto pastorale: su questi temi di cui abbiamo parlato questa sera, lui è molto preciso. Sul fatto, per esempio, che gli adulti non sono più capaci di trasmettere la fede ai giovani, l’ha detto molto chiaramente: qui stanno passando una generazione o due “senza Dio”, perché non c’è più nessuno che lo propone in termini seri. Io sono molto contento del suo operato: sulle scelte di tipo disciplinare giustamente ha preso posizioni molto forti, come nei confronti della pedofilia. Poi però per riuscire a portare a un cambiamento tutta la sua “corte”, come la chiamo io, ovvero la Curia Vaticana, ce ne vorrà… Prima di riuscire a cambiare tutto questo modello occorre un salto di qualità, perché, come tutte le corti, il Vaticano è un nucleo di persone che servono il Papa le quali, per entrare dentro le sue scelte, dovranno, sia pure lentamente, riuscire a capire di più quale è il suo progetto di Chiesa.