PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 20 maggio 2018 - Domenica di Pentecoste - B

1ª lettura: Atti 2,1-11

2ª lettura: Gal 5,16-25

Vangelo: Gv 15,26-27; 16,12-15

 

Uno sguardo al futuro

 

Pur essendo – dopo il Natale e la Pasqua – la principale Solennità dell’Anno Liturgico e della fede cristiana in generale, ci sbaglieremmo, se pensassimo che la festa di Pentecoste sia specifica e propria del Cristianesimo. Questo è facilmente intuibile dal racconto della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli fatto da Luca all’inizio del suo secondo libro, dove dice chiaramente che “stava compiendosi il giorno di Pentecoste”, quindi un giorno di festa del giudaismo. Se però, per quanto riguarda la Pasqua, ci è più facile fare un collegamento alla festività ebraica - perché Gesù l’ha vissuta nella sua pienezza pochi istanti prima di morire - quando parliamo di Pentecoste, il nostro pensiero va immediatamente a un fatto accaduto al termine del giorno di Pentecoste dello stesso anno in cui Gesù era morto in croce, ovvero la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, che comportò l’inizio ufficiale dell’attività missionaria della Chiesa. Pentecoste, quindi, uguale “Spirito Santo”. Ma la Pentecoste non è solo quello. E allora, andiamo a vedere cos’era la festa di Pentecoste per gli Ebrei, e cosa avveniva in quel contesto.

Lo Shavuot (questo il nome della festa, che in ebraico significa settimane) era una delle feste principali della religione giudaica, perché (a partire dal numero 7, il numero della pienezza, quello in cui Dio portò a compimento la Creazione con il riposo) si celebrava passate “sette settimane” (cinquanta giorni, di fatto, ovvero il massimo della pienezza e del compimento) dal giorno della Pasqua: era quindi considerata la festa che portava a compimento, alla perfezione, il ricordo della Pasqua dell’Esodo. S’invitavano quindi i fedeli della religione ebraica sparsi in tutto il mondo a causa della deportazione babilonese (che erano chiamati “Diaspora”, ovvero “dispersione”), a tornare a Gerusalemme dopo esservi già stati a Pasqua (o se non vi erano stati per Pasqua, a maggior ragione) per dare culto a Dio, portando al Tempio le primizie del raccolto dei campi. Era quindi la festa che segnava l’inizio del lavoro di raccolta nei campi, il quale si sarebbe concluso con un’altra festa, la festa di Sukkot (o delle Capanne), quella che per noi è diventata un po’ la Giornata del Ringraziamento, in pieno autunno, e che comportava il terzo pellegrinaggio annuale a Gerusalemme per offrire non più le primizie, ma i frutti definitivi della terra. In seguito, nel corso degli anni, la tradizione giudaica decise di celebrare a Pentecoste un’altra ricorrenza, quella in cui anche Dio offrì al suo popolo il primo dei frutti dell’Alleanza, ossia la Torah, la Legge data a Mosè sul Sinai. Pentecoste (“cinquanta giorni” chiamata così in greco, che era l’unica lingua conosciuta da tutti gli Ebrei della Diaspora) era quindi una festa che aveva queste caratteristiche: si celebrava il compimento della Pasqua; si offrivano i primi frutti della terra; si ringraziava Dio per il dono della Legge; ci si radunava a Gerusalemme dai più lontani confini della terra per sentirsi un solo popolo con un’unica fede, nonostante la differenza delle lingue e delle culture.

Tutti elementi che ritornano nella Liturgia della Parola di oggi e che, reinterpretati alla luce della Rivelazione, ci aiutano a comprendere l’enorme importanza di questa festa per la nostra fede cristiana. Luca, infatti, ci dice che “stava compiendosi il giorno della Pentecoste”: se quindi per la fede ebraica quello era il giorno del compimento, è bello il particolare per cui la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli avvenne alla sera, al “compiersi del giorno del compimento”, e quindi la grandezza della fede ebraica è superata dalla grandezza della forza dello Spirito, compimento totale e definitivo della Redenzione. Talmente totale e definitivo che la gente della Diaspora, radunata a Gerusalemme dai più disparati confini della terra, non ha più bisogno di ritrovare la propria identità parlando in una lingua (il greco) che li mettesse tutti d’accordo, perché quei Galilei pieni di Spirito Santo potevano parlare a ognuno dei presenti nella loro lingua natia, e tutti riuscivano a capirsi, nonostante le loro diversità non venissero annullate. L’esatto contrario di quello che la torre di Babele aveva fatto, agli inizi della storia.

Ma non è tutto. A Pentecoste venivano portate al Tempio le primizie dei frutti, e il primo dei frutti dell’Alleanza tra Dio e il popolo era la Legge del Sinai. Paolo, che scrive ai Galati con i quali aveva fatto una terribile fatica a fare comprendere che per credere in Cristo non era necessario passare attraverso la fede nella Legge di Mosè, ribadisce a loro e a tutti noi che lo Spirito porta nella vita dei credenti frutti meravigliosi, contro i quali non c’è Legge che tenga: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;  contro queste cose non c'è Legge”. C’è poco da fare: dove arriva lo Spirito di Dio, ogni cosa trova il suo compimento, esprime le sue massime potenzialità, esplode in tutta la sua ricchezza, supera ogni legame con la storia e la tradizione.

E, se non bastasse, le letture di oggi aggiungono pure qualcosa d’altro. Sì, perché anche Gesù ha diritto, nel Vangelo, di dirci qualcosa sulla forza dello Spirito, dal momento che è un suo dono, anzi “il” suo dono, il dono per eccellenza del Risorto: “Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”. Lo Spirito Santo, disceso oggi sulla Chiesa, ci conduce alla verità della nostra vita di fede: ovvero, ci annuncia ciò che ha udito dal Padre e soprattutto ci annuncia le cose future.

Il futuro: questo è ciò di cui abbiamo bisogno nella nostra vita di fede, di non fermarci alle tradizioni del passato e di non accomodarci a viverle nel presente, celebrando ogni anno una festa o una ricorrenza. Ci dobbiamo aprire alle cose future. Senza futuro, senza uno sguardo in avanti, senza un’apertura al domani, a un giorno che verrà e che speriamo sia sempre migliore di quelli trascorsi, non possiamo certo sperare che la nostra vita di fede continui a vivere. Sopravvivrà, forse, vivacchierà, ma non vivrà a lungo.

Grazie a Dio, lo Spirito è vita.