PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 5 maggio 2019 - III Domenica di Pasqua – Anno C

1ª lettura: Atti 5,27b-32.40b-41

2ª lettura: Ap 5,11-14

Vangelo: Gv 21,1-19

 

L’amore fa la differenza

 

In questi giorni, accompagnando i bimbi della Prima Comunione all’incontro con Gesù nell’Eucaristia, facevo loro molte domande, con l’intento – più pedagogico che catechetico – di “verificare” la loro effettiva preparazione. Tra le varie domande, la più “gettonata”, nel senso di quella che destava più preoccupazione per la risposta che erano chiamati a dare, era quella che facevo dopo aver fatto la “prova” con la particola ovviamente non consacrata: “Che differenza c’è tra la particola che avete ricevuto oggi e quella che riceverete la domenica della Prima Comunione?”. Potete immaginare la varietà delle risposte, volte tutte quante a cercare di spiegare – alla maniera di un bambino – il mistero della “transustanziazione”… A parte il fatto che sfido chiunque di noi – compresi gli addetti ai lavori – a riuscire a dare una spiegazione plausibile al mistero per cui un pezzo di pane (per di più dalla forma e dal sapore anomalo) diventi “carne”, “corpo”, e “corpo di Cristo” in particolare; sta di fatto che i bimbi hanno cercato di dare la loro versione dei fatti “a modo loro”. Da chi sosteneva che le particole “vere” erano più croccanti, o comunque più saporite, a chi si lanciava in improbabili spiegazioni chimiche legate all’attualità, secondo le quali le prime hanno poco glutine, mentre le seconde lo acquistano in pienezza… Finché abbiamo deciso, dopo vari tentativi, di tenere buona la risposta dei più, che sosteneva che la particola ricevuta il giorno dell’Eucarestia è “più benedetta” di quell’altra: il dubbio che una fosse semplicemente un pezzo di pane, e che nell’altra ci fosse Gesù in persona non è balenato nella mente dei nostri piccoli, per i quali Gesù è presente in ogni cosa, quindi anche nei ritagli delle particole, gustoso regalo delle poche suore claustrali che ancora confezionano le ostie per l’Eucarestia.

E va bene così. La differenza c’è: non si avverte, non si sente, ai sensi rimane tutto come prima, ma la differenza c’è, e abbiamo loro promesso che la capiranno solo dopo che Gesù sarà entrato nel loro cuore. Ed è favoloso vedere che la presenza di Gesù Eucaristia nella loro vita, fatto salvo il mistero della transustanziazione, si manifesta fondamentalmente nell’entusiasmo con cui si preparano a riceverlo, considerando la parola “entusiasmo” nella sua dimensione etimologica più bella, “Stare nell’essenza di Dio”.

Un entusiasmo che, invece, non riesce a fare la differenza quella sera, al tramonto, sulle rive del mare di Tiberiade, dove sette discepoli, pieni di tutto tranne, per l’appunto, che di entusiasmo, per far passare il tempo decidono di andare a pescare, correndo dietro come dei pecoroni al “capo”, Simon Pietro, che personalmente crede di essere ancora capace di fare quello che non faceva regolarmente ormai da tre anni. Certo, non ha fatto altro che tornare a pescare. Con una differenza: che l’ultima volta che l’aveva fatto era andata particolarmente bene (a rischio quasi di affondare), perché allora c’era il Maestro con loro. Mentre oggi il Maestro non c’è più. E si vede dal risultato: zero. Nulla, tutta la notte.

Finché è notte, c’è ben poco da fare: per fare la differenza, occorre aspettare l’alba (tutti i pescatori sanno che si pesca meglio al mattino presto, tranne questi sette…). Ma soprattutto bisogna aspettare l’ottavo uomo, l’uomo dell’ottavo giorno, l’uomo dell’alba del primo giorno dopo il sabato, che non si fa riconoscere se non quando fa riempire di pesci la rete. Se chiedessimo ai nostri bambini della Prima Comunione che differenza c’è stata tra la pesca fatta di notte da quei sette e la pesca fatta al mattino dai “sette più uno”, non avrebbero dubbi a tirare fuori il loro entusiasmo: “La differenza è Gesù!”. “È il Signore!”: è l’unico lampo di entusiasmo di tutto il brano di vangelo, e viene dalla bocca del discepolo che Gesù amava più degli altri. Vuoi vedere che la differenza la fa proprio l’amore?

Forse è proprio così: la differenza la fa l’amore. Perché alla fine, in questo gioco delle “differenze”, ne è rimasta una sola, ed è una differenza di fronte alla quale spesso ci facciamo delle domande: che differenza c’è tra “amare” e “voler bene”?

Beh, per molti la differenza è evidente: “voler bene” è un sentimento che si rivolge agli amici, alle persone legate a noi da vincoli di parentela, ma anche semplicemente a qualcosa a cui si è affezionati (si vuole bene anche all’animale domestico…a volte anche troppo). “Amare”, invece, si riserva alle persone speciali: all’amore della propria vita, a quel “lui” o “lei” che diviene il tuo compagno di vita, oppure ai figli da parte dei genitori. Amare è un sentimento molto più forte del voler bene.

Tutto qui? Un po’ poco, a dire la verità…a me piacerebbe sapere cos’è che fa la differenza tra amare e voler bene. Anche Gesù ha voluto saperlo da Simon Pietro. Eh, già: perché quando il Maestro gli chiede “Simone di Giovanni, mi ami più di costoro?”, quello gli risponde “Certo, Signore, tu sai che ti voglio bene”. E non una, ma due volte, di fila. Allora Gesù vuole vederci chiaro, e glielo chiede per la terza volta, a costo di farlo rimanere male (già, perché le ultime tre dichiarazioni di Pietro verso il Maestro, la notte del Getsemani, non erano proprio state dichiarazioni di fedeltà…e tra l’altro, poche ore dopo avergli giurato di voler morire con lui in croce!). E così, la terza volta, Gesù si abbassa al suo livello e gli chiede se “gli vuole bene”, non più se “lo ama”. E quello riconosce di non sapere più nulla, né di sé né dei suoi sentimenti: “Signore, tu sai tutto: a questo punto, lo sai tu se io ti voglio bene”.

Gesù sa bene la differenza tra amare e voler bene: chi non la sa, è Pietro. Chi non la sa, siamo noi, che magari diciamo a parole “Ti amo” con estrema facilità perché affogati nella passione, quando invece per amare occorre fare quello che ha fatto Gesù: dare la vita per le persone che ami. Ecco perché solo due innamorati riescono a dirselo: perché volersi bene, a loro, non basta! Due amici “si bastano” volendosi bene, ma due innamorati no, perché uno deve essere disposto a dare la vita per l’altro, a buttare all’aria la propria vita, anima e corpo, per l’altro, a perdersi nell’altro! Ecco perché un padre e una madre possono amare i figli, mentre i figli non possono dire “Ti amo” ai loro genitori, ma solo “Ti voglio bene”: perché non hanno fatto quello che i genitori hanno fatto per loro, ovvero dare loro la vita.

Eh, va beh…è puro nominalismo: cosa cambia? Cambia, eccome: chiedetelo a quello che avrebbe voluto seguire fin sulla croce il suo Gesù, tanto diceva di amarlo, e poi lo rinnega! Adesso, e solo adesso, Gesù gli dice “Seguimi”: perché gli ha fatto capire (e la morte di Pietro ce ne ha dato conferma) che la differenza tra “voler bene” e “amare” passa attraverso la vita donata. A volte generandola, a volte perdendola per gli altri, con la propria morte.

Del resto, non lo dice pure il nostro tanto citato Cantico dei Cantici? “Forte come la morte è l’amore”. Anzi no: di più. Perché c’è un amore che è più forte della morte. E chi ha fatto la differenza, in questo?

Quello che ha lasciato la tomba vuota; quello che ha aperto gli occhi a due discepoli delusi spezzando il pane a Emmaus; quello che ha fatto pescare centocinquantatré grossi pesci da un mare che non ha mai dato tanto.

Quello che la morte l’ha proprio sconfitta: il Risorto.