PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 14 ottobre 2018 - XXVIII Domenica T. Ordinario - B

1ª lettura: Sap 7,7-11

2ª lettura: Eb 4,12-13

Vangelo: Mc 10,17-30

 

Il gioco degli sguardi

 

Certamente, ognuno di noi avrà provato, qualche volta, a essere fissato a lungo da un’altra persona. Il più delle volte, la situazione crea imbarazzo, se non fastidio, soprattutto se si tratta di uno sconosciuto: in questo caso, può subentrare addirittura un senso di paura, se l’altra persona ci trasmette intenzioni cattive nei nostri confronti. L’imbarazzo, il fastidio, la paura creano quasi un senso di vergogna, e allora si fa di tutto per cercare di evitare quello sguardo, di non incrociare gli occhi dell’altra persona; e contemporaneamente, anche solo con la coda dell’occhio o in maniera furtiva, si cerca di controllarla, di capire se e quando smetterà di fissarci in quel modo. Chi tra di noi è più coraggioso di altri non si fa scrupoli, dopo uno sguardo prolungato su di sé, ad affrontare “l’ammiratore”, generalmente apostrofandolo con la richiesta perentoria di giustificare il perché di quello sguardo e soprattutto di rivolgerlo da un’altra parte; nel migliore dei casi, lo fa con la forma gentile di un’innocente richiesta, ad esempio chiedendo alla persona se abbia bisogno di qualcosa, oppure se per caso stia cercando qualcuno e, nella ricerca, ci avesse talvolta confuso per un altro.

Ci sono anche gli sguardi di sconosciuti che non creano né imbarazzo né fastidio, bensì piacere e complicità, soprattutto se si tratta di sguardi ammiccanti, preludio a un tentativo di entrare in contatto verbalmente con una persona che (si capisce) ci fa piacere conoscere perché mostra il medesimo desiderio. Se poi la persona si rivela interessante perché ricca di fascino, allora il gioco degli sguardi diventa sempre meno fortuito e casuale, e inizia a farsi intenso; e se poi si percepisce di essere corrisposti, allora si perde ogni freno inibitore, e gli sguardi diventano sempre più intensi, profondi, diretti. Gli occhi di entrambi assumono una luce tutta particolare, che li rende belli anche quando non lo sono, perché – si sa – l’occhio è lo specchio dell’anima, e attraverso quello scambio di sguardi si entra nell’anima dell’altra persona e si lascia che le due possano trasmettersi ogni tipo di sentimento. Non c’è storia d’amore, infatti, ma anche una semplice e profonda amicizia, che non inizi con uno scambio intenso di sguardi.

Poi, col passare del tempo, questi sguardi pieni di amore diventano consuetudine, e si affrontano senza la paura dell’altro anche quando ci si deve guardare negli occhi per dirsi cose non proprio piene d’amore. Ci si guarda negli occhi anche per discutere, per dirsi in faccia le cose che non vanno, per prendere decisioni importanti e a volte drammatiche; e quando uno dei due cerca di sfuggire allo sguardo dell’altro significa o che non sente più lo stesso feeling che c’era prima o che sa di sentirsi dalla parte del torto, per cui preferisce non affrontare lo sguardo di chi, nel frattempo, fa di tutto per essere guardato in faccia perché si sente forte delle sue ragioni (ne sanno qualcosa, ad esempio, le mamme e i papà costretti a rimproverare i loro figli dicendo loro più volte: “E guardami in faccia, quando ti parlo!”).

Certo, alla fine, se ci si vuole bene, ci si continua a guardare negli occhi, sebbene a volte non brillino di gioia, ma di lacrime e di rabbia: l’importante è che ci sia corrispondenza, ovvero che i nostri occhi trovino negli occhi dell’altro il medesimo sentimento, la medesima intensità, il medesimo coraggio, perché ciò significa che all’uno è permesso ancora di entrare nell’anima dell’altro. Se questo non avviene, lo sguardo di uno dei due alla fine non regge più, neppure allo sguardo più amorevole possibile da parte dell’altro, e quella luce che brillava nei suoi occhi alla fine lo rende scuro in volto, e forse è meglio che le due strade si separino.

Ci aveva provato, Gesù, a rendere magico quel gioco di sguardi tra lui e un tale (presumibilmente un giovane) che, talmente affascinato da lui, gli si gettò davanti in ginocchio chiedendogli: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Per nulla intimorito o imbarazzato da quello sguardo e da quella richiesta – e ci mancherebbe che Dio si faccia intimorire da noi! – Gesù vuole capire per quale motivo questo tale lo chiami “buono”, visto che “buono” è solo Dio. Forse Gesù aveva visto sincerità, nella richiesta e nello sguardo di quel giovane; forse Gesù aveva capito che davvero questo giovane cercava ciò che è buono, ciò che è davvero buono, il “bonum” dei latini, il Bene supremo, la cosa più importante della vita. E l’ha capito ancor di più dopo aver verificato di persona che non era uno che si accontentava delle due o tre cosette scritte nei comandamenti, perché quelle non gli bastavano più, voleva altro, voleva “ereditare la vita eterna”. Gesù ha capito di avere di fronte a sé qualcuno che faceva sul serio, che voleva andare in profondità, e allora il suo sguardo su di lui si riempie di amore, perchè l’unico modo che Dio conosce per entrare nel cuore dell’uomo è quello di amarlo. E se l’uomo corrisponde a questo sguardo, inizia una profonda amicizia con lui; come fu per Zaccheo, su cui Gesù fissò lo sguardo ottenendone la conversione, o per Pietro, che fissato una prima volta da Gesù, lo seguì sulle rive del mare di Galilea, e guardato una seconda volta dopo averlo rinnegato, sentì l’amarezza del tradimento e contemporaneamente la grazia del suo perdono.

Ma quel giorno, quel giovane, non corrispose allo sguardo di Gesù: il suo volto si fece scuro, e deluso e rattristato se ne andò, decidendo di fare a meno del fascino di quel Maestro buono. Aveva già capito tutto, aveva già scoperto tutto di Dio, e non si poteva non amarlo, anche solo per quello. Ma aveva commesso uno sbaglio: aveva pensato che tutto quanto – addirittura la vita eterna - si potesse avere “in eredità” così come aveva ereditato tutte le ricchezze di cui era in possesso. Aveva acquistato o ereditato tutto, nella vita: vuoi che non potesse fare lo stesso con la ricchezza più grande, Dio e il suo Regno?

No, perché con Dio non funziona così: Dio non si compra, Dio si ama. Dio non si baratta, Dio si segue. Dio non si mercanteggia, di Dio ci si fida. Dio non gioca al risparmio, Dio spende, spende tutto, addirittura la propria vita per noi. Ma se noi abbiamo in testa di poter possedere Dio come possediamo i beni di questa terra, abbiamo sbagliato di grosso; se pensiamo che Dio è il bene più prezioso perché vogliamo possederlo come nostra eredità, è meglio girare lo sguardo da un’altra parte.

Sì, Dio è la nostra eredità, il nostro tesoro più prezioso: ma è un tesoro che si accumula in cielo avendo come unico tesoro, qui in terra, i poveri. E per farlo, occorre guardarlo negli occhi, amarlo come lui ci ama, e fare l’unica cosa che ci chiede, senza “se” e senza “ma”: “Vieni! Seguimi!”.