PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 21 ottobre 2018 - XXIX Domenica T. Ordinario - B

1ª lettura: Is 53,10-11                                                                     92ª Giornata Missionaria Mondiale

2ª lettura: Eb 4,14-16

Vangelo: Mc 10,35-45

 

Il duplice movimento della missione

 

Ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra. Essere attratti ed essere inviati sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza”.

Sono parole che Papa Francesco scrive quasi all’inizio del Messaggio inviato – per la prima volta direttamente a una categoria di fedeli, i giovani – in occasione di questa 92ª Giornata Missionaria Mondiale. Messaggio che ha appunto, per titolo, “Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti”. È un messaggio rivolto direttamente ai giovani, dicevo, a motivo della concomitanza con il Sinodo dei Vescovi a loro dedicato, che si concluderà proprio questa settimana; ma è comunque un messaggio rivolto alla Chiesa Universale, perché ci deve aiutare a riscoprire la dimensione missionaria della Chiesa, nel suo insieme e nella particolarità di ogni Chiesa locale. E sappiamo bene come, sin dai primissimi giorni del suo pontificato, papa Francesco abbia battuto il chiodo su questa dimensione ecclesiale, a suo avviso ineludibile e più che mai urgente nel nostro mondo contemporaneo: non c’è Chiesa se non c’è missione, non c’è Chiesa se non c’è apertura all’altro, non c’è Chiesa laddove la Chiesa non sia disposta a mettersi in cammino, in dialogo, in discussione. Addirittura, oggi ci dice che non c’è “umanità”, non c’è uomo né donna che non siano una “missione vivente”.

Cos’è che genera questa missione vivente, stando ancora alle parole di Papa Francesco? È un duplice movimento, un movimento molto simile a quello del cuore, che pulsando attrae e invia, riceve e manda, immagazzina e invia continuamente quella linfa vitale che è il sangue a ogni parte del corpo. La Chiesa, corpo di Cristo, vive perché tutte le sue membra sono irrorate dal sangue di Cristo stesso, che non è solo l’Eucarestia, come si può facilmente comprendere, ma è anche la sua dimensione missionaria, il suo Spirito che sin dagli albori della Chiesa ha reso missionaria la comunità dei credenti in Cristo. Sia pur abbozzate, queste possono essere alcune premesse teologiche riguardo alla dimensione missionaria, fondamentale per la Chiesa. Ma nel concreto, oggi, stando a questo duplice movimento di cui ci parla il messaggio del papa, che cosa significa essere una Chiesa missionaria? Che cos’è, oggi, la missione nella Chiesa? Certo, ci viene spontaneo rispondere “l’attenzione nei confronti di tutti i popoli della terra”: e non sbaglieremmo per niente. Ma come si concretizza questo, oggi, all’interno di una Chiesa italiana che nel giro di soli trent’anni ha visto passare il numero dei suoi missionari “ad gentes” da oltre venticinquemila a poco più di ottomila, molti dei quali non più catalogabili nella categoria dei destinatari del messaggio del Papa, in quanto la loro età media si attesta sui 65 anni? È vero che essere giovani, soprattutto nella vita di fede, non è un fatto cronologico: ma gli anni non li cancella nessuno, le forze che vengono meno neppure, e soprattutto le prospettive future di una continuità nell’azione missionaria “ad gentes” rischiano fortemente di essere compromesse da questa età media piuttosto avanzata dei nostri missionari.

Che cosa fare? Certamente, tornare a considerare come rivitalizzante per la missione questo duplice movimento di cui ci parla il papa: essere attratti da Gesù e dalla sua Parola per essere poi inviati ad annunciarla, per poi nuovamente tornare a lui e così via. E a voler vedere, di questo duplice movimento c’è traccia pure nel Vangelo di oggi, dove si trova un’annotazione che pare marginale, ma a mio avviso non lo è affatto. Si dice, infatti, a margine del dissidio (chissà, forse anche un litigio) tra Giovanni e Giacomo e gli altri del gruppo dei Dodici, che Gesù “li chiamò a sé” (e sì che non erano dispersi in giro, gli erano tutti intorno), perché avverte la necessità di farli tornare a sé, di farli rientrare in sé dopo che la discussione li aveva allontanati l’uno dall’altro. E la discussione era sorta per motivi d’indignazione, di gelosia, d’invidia, chissà, forse di rabbia nei confronti dei figli di Zebedeo, che avevano chiesto per sé al Maestro i posti migliori nella gloria del suo regno. Gesù richiama a sé i Dodici, li attira proprio a sé, per ricordare loro un concetto fondamentale: il cammino che stanno affrontando in direzione di Gerusalemme, ormai in dirittura d’arrivo, non è un cammino che terminerà in gloria. È un cammino faticoso che terminerà con la croce; e se i discepoli, nonostante i continui insegnamenti ascoltati da Gesù anche nelle scorse settimane, non riescono a comprendere questo, è necessario che Gesù, prima di continuare il cammino e di affidare a loro la missione di annunciare il vangelo della Resurrezione, ribadisca loro che cosa significhi essere suoi discepoli, essere suoi inviati, essere cristiani. Significa, in buona sostanza, farsi servitori degli altri (Gesù usa addirittura il termine “schiavi”), servi dell’umanità. Ma questa dimensione di servizio si coglie solo stando uniti a lui, stando insieme a lui, non per sedersi uno alla destra e uno alla sinistra del suo trono di gloria, ma per servire i fratelli come Gesù li serve, ovvero fino al dono di sé. Ecco il duplice movimento della missione di cui si parlava prima: ritornare al cuore della nostra fede per capire che uscire verso l’altro significa servirlo e non comandarlo, metterci a sua disposizione e non pretendere che l’altro accora a noi e si metta a nostro servizio, a nostra disposizione.

Nel corso della sua affascinante e faticosa storia, la Chiesa ha dovuto continuamente reinterrogarsi sul suo modo di testimoniare e annunciare il Vangelo, perché spesso le è venuto meno questo duplice movimento. Spesso, a volte in buona fede, a volte con metodi aberranti e violenti, la comunità dei credenti in Cristo si è sentita investita di una verità che ha imposto ai popoli della terra (vicini e lontani) chiedendo loro una sottomissione, un atteggiamento servile nei confronti di una Parola, quella di Gesù, che ha sempre parlato di tutt’altro, ossia non di dipendenza ma di libertà, non di servilismo ma di servizio. Anche nelle nostre comunità cristiane, nelle nostre parrocchie, di là dal fatto di essere aperte o no alla missione “ad gentes”, la missionarietà si gioca proprio su quest’atteggiamento, ossia sul servizio che offriamo alla gente, sulla vicinanza che doniamo loro, sul farci prossimi delle loro fatiche, e non sulla pretesa che essi si mettano a servizio della Chiesa, delle sue norme, dei suoi precetti, delle sue categorie, dei suoi programmi, dei suoi piani pastorali. Altrimenti non si è più “servi”, ma si diviene come “i governanti delle nazioni, che dominano su di esse”; altrimenti non si è più figli di una Chiesa missionaria dalle porte aperte, ma membri di un’organizzazione di potere che pensa più ai propri privilegi che ai servizi che offre.

Grazie a Dio, abbiamo anche occasioni come quella della Giornata Missionaria Mondiale, che ci ricordano di non far mai venir meno questo duplice movimento: tornare al cuore della fede per annunciarlo e donarlo agli altri servendoli. Se il movimento è univoco, il cuore si ferma. Se attrae a sé senza poi di nuovo donare, si atrofizza e muore; se si prodiga verso tutto e tutti senza tornare mai al cuore della fede, muore di emorragia da protagonismo. E questo i maestri della missione lo sapevano bene.

È con la frase di uno dei “leoni della missione”, san Daniele Comboni, che mi piace oggi chiudere questa riflessione in chiave missionaria: Il ritorno al cuore della fede nella preghiera, sia il pane quotidiano dei nostri missionari; è troppo necessaria per mantenere il fervore della vocazione in questi paesi, dove è purtroppo facile dimenticarsi di Dio e dei propri doveri, nascondendoci dietro il dovere della dedizione agli altri”.