PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

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Domenica 3 febbraio 2019 - IV Domenica Tempo Ordinario - C

1ª lettura: Ger 1,4-5.17-19

2ª lettura: 1 Cor 12,31 – 13,13

Vangelo: Lc 4,21-30

 

Dio si vendica? E da quando?

 

Non possiamo certo pretendere che, nella vita, tutti la pensiamo allo stesso modo. Ci mancherebbe altro: avremmo una monotonia di vita impressionante. E non parlo di mentalità proveniente da mondi e da culture diverse, bensì all’interno stesso di un paese, di una piccola comunità, o nel medesimo contesto familiare: la pensiamo forse tutti alla stessa maniera, in famiglia? Nemmeno tra una coppia, spesso, c’è comunione di pensiero e di vedute! Figuriamoci, quindi, se nella società la possiamo pensare tutti alla stessa maniera! E – ripeto – grazie a Dio che non è così, perché questo ci aiuta a comprendere che la verità delle cose non sta mai tutta da una parte sola!

E questo riguarda anche la vita di fede, ovviamente: pur esistendo delle verità che non cambiano, che sono immutabili, eterne, rivelate da Dio, non tutti le comprendiamo, le accettiamo o le viviamo allo stesso modo. Che i sacramenti siano sette, per noi cattolici, non ci piove: ma che tutti li viviamo alla stessa maniera e con la stessa intensità non è per nulla pensabile. Qualcuno, ad esempio, può far fatica nel celebrare il sacramento della confessione; qualcun altro, invece, non se la sente di fare la comunione ogni volta che va a messa. C’è chi ama le celebrazioni ben curate, ben partecipate, preparate anche nei minimi dettagli nonostante siano un po’ più lunghe del dovuto; c’è chi invece fa della brevità e dell’essenzialità di una celebrazione la condizione per poter continuare a frequentare la chiesa. C’è chi adora un certo stile di predicazione e c’è chi proprio non lo sopporta; c’è chi ritiene la liturgia e la preghiera personale i momenti più importanti della pratica religiosa, c’è chi invece concentra la propria attenzione sulla carità e sui gesti concreti di aiuto agli altri. Su Dio, anche su Dio, abbiamo veramente modi diversi di pensare e di vivere il nostro rapporto con lui.

Gesù stesso ha sperimentato questo, da buon ebreo praticante, all’interno della sua comunità di fede di Nazareth: non tutti, su Dio, la pensavano come lui. E poiché egli sapeva bene di questa difformità di pensiero, da subito gioca allo scoperto e provoca i suoi compaesani. Ricordiamo bene il brano di Vangelo di domenica scorsa, che terminava con le stesse, identiche parole con cui inizia quello di questa domenica:Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Un annuncio che a noi, dopo duemila anni di cristianesimo, suona come una verità rivelata sulla quale non abbiamo dubbi. La reazione dei compaesani di Gesù, però, non fu ugualmente pacifica: e se il Vangelo di oggi termina con Gesù che fugge da un tentativo di linciaggio da parte dei suoi compaesani, allora vuol dire che la diversità di pareri rispetto a loro era davvero grande, e che la provocazione da lui fatta ha sortito un effetto dirompente. Cos’avrà mai detto di così grave, Gesù, quel sabato nella sinagoga? Forse si è “esaltato” un po’ troppo, dicendo ai suoi compaesani che quelle parole di Isaia (“Lo spirito del Signore è sopra di me”) si stavano compiendo nella sua persona? Non credo, visto che tutti quanti testimoniavano di aver sentito dire di lui grandi cose e grandi prodigi compiuti nella città rivale di Cafarnao! Che cos’era successo, allora? Che cosa aveva detto di così sbagliato?

Forse, il problema sta non tanto nel “cosa abbia detto”, ma nel “cosa non abbia detto”, Gesù, nella sinagoga. Il brano del profeta Isaia che Gesù lesse (che, non dimentichiamo, lui stesso “trovò” nel rotolo, quindi non lo scelse a caso), termina con un versetto che Gesù omette volontariamente e inspiegabilmente, per chi lo ascoltava: “[Il Signore mi ha mandato a proclamare]… il giorno di vendetta del nostro Dio”. Mentre Gesù terminò dicendo “[Il Signore mi ha mandato a proclamare]… a promulgare l'anno di grazia del Signore”. E se ricordiamo, si era creata una tensione palpabile, nell’aria, al termine di quella lettura: “Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. Nessuno osa fiatare, eppure c’è un brusio, un sottofondo ostile, quando parla del compimento di quella parola. Perché secondo il suo modo di vivere il rapporto con il Padre, il compimento di quella parola ascoltata si riduceva tutto a un unico termine: “grazia”, ovvero pietà e misericordia. Spazio per l’ultimo versetto, quello di un Dio che si vendica dei propri nemici, non ce n’era più: il Dio vendicatore in Gesù è scomparso, è arrivato il Dio della grazia e della misericordia.

Noi diremmo: “Che bello! Un Dio che accoglie e perdona tutti!”. Ma i suoi compaesani, allora (e forse non solo loro, e non solo allora…), non accettano di avere tra le loro file un compaesano che si atteggia a maestro e profeta in nome di un Dio misericordioso: il Dio di Nazareth era un Dio vendicatore, e così i suoi compaesani volevano che fosse venerato! E allora, iniziano a meravigliarsi delle parole di grazia che escono dalla sua bocca; si meravigliano che queste cose le dica “il figlio di Giuseppe”, uno di loro, uno che per forza di cose (secondo la loro mentalità) doveva condividere le idee del clan; si meravigliano, anzi, si arrabbiano che abbia fatto prodigi a Cafarnao (la città di confine con i popoli cananei, porto di mare, dove gli abitanti avevano imbastardito la fede di Israele mischiandosi con gli stranieri infedeli) e non abbia fatto nulla per Nazareth! In sostanza, a loro non va bene che Gesù annunci una visione di Dio completamente differente dal Dio vendicatore, chiuso alla dimensione di grazia e di misericordia, che gli abitanti della sua Nazareth da sempre proclamavano, e secondo loro non poteva essere diversamente. E non volevano che questo “nuovo profeta” venisse a insegnare loro nulla di nuovo: piuttosto, che le sue “ricette” e le sue “medicine” di un Dio che agisce per misericordia e per amore senza vendicare il male, le usi per curare se stesso!

Gesù però non sta zitto, e ricorda loro due fatti storici che mettono bene in evidenza come un vero profeta, in Israele, per poter mettere in atto l’immagine di un Dio che è amore, abbia sempre dovuto dirigersi fuori dal paese; perché nel paese nessuno capiva che Dio è amore e che ama tutti, anche gli infedeli, anche quelli di Cafarnao dalla fede imbastardita, anche i siriani nemici perenni di Israele come Naamàn guarito dalla lebbra dal profeta Eliseo, anche la vedova fenicia salvata dalla fame dal profeta Elia! E questo, gli israeliti di Nazareth non potevano capirlo non perché avessero un modo diverso di concepire la fede: quello, lo abbiamo visto, ci poteva stare. Ci sono delle cose, però, su cui non si può pensarla diversamente dal Dio di Gesù Cristo, perché minano alla base il suo messaggio di salvezza: e tra queste, il fatto che Gesù non è stato mandato dal Padre nel mondo per vendicarsi dei suoi nemici, ma per proclamare la sua grazia e la sua misericordia!

A volte mi chiedo che colpa ne avessero gli abitanti di Nazareth, che purtroppo erano cresciuti con quella mentalità e non potevano certo cambiarla facilmente. È vero, loro forse non avevano colpa: ma noi, che alla fine ci ritroviamo immersi in un mondo e anche in una mentalità religiosa che la pensa ancora così, possiamo cambiarla, questa mentalità. Come? Mettendo al centro del messaggio l’amore di un Dio che invece di vendicarsi e di farla pagare ai suoi nemici, è magnanimo, è benevolo, non è invidioso, non si vanta, non manca di rispetto, non ama in maniera interessata, non si arrabbia, non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, tutto crede, tutto sopporta, tutto spera…

Che peccato, per i compaesani di Gesù, non aver conosciuto Paolo di Tarso…

 

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