PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 6 maggio 2018 - VI Domenica di Pasqua – B

1ª lettura: Atti 10,25-26.34-35.44-48

2ª lettura: 1 Gv 4,7-10

Vangelo: Gv 15,9-17

 

Un Dio per amico

 

Di fronte all’ascolto di questo brano di Vangelo, potrà sembrare strano, ma a me sorge spontanea una domanda: “Perché?”. Perché quando guardo le mie sorelle e i miei fratelli cristiani non vedo sul loro volto e nel loro cuore “la gioia piena” di cui ci parla Gesù oggi? Perché, invece di incontrare cristiani contenti di venire in chiesa, smaniosi di incontrare Gesù e i fratelli di fede, molto spesso incontro adulti che dicono di non aver tempo o voglia di pregare, oppure giovani che di andare in chiesa manco vogliono sentire parlare, oppure adolescenti (e anche ragazzi) che sbuffano ogni volta che i genitori o i catechisti dicono loro “Su, andiamo a messa!”, o ancora, anziani che dicono di aver perso la fede o di non riuscire più a pregare come prima? Non che non esistano cristiani felici di incontrarsi con Gesù (anzi, ce ne sono alcuni che sono fin troppo entusiasti, se è per quello): ma non ho alcun timore a sostenere che, effettivamente, si tratta di una sparuta minoranza.

La stragrande maggioranza di noi cristiani (sì, mi ci metto pure io, perché non è che il clero sia esente da questo) vive la propria vita di fede e il proprio essere Chiesa come un peso, una fatica, a volte un’oppressione, spesso come un obbligo o un precetto, nella migliore delle ipotesi come un dovere… E sì che, stando al Vangelo di oggi, Gesù è tutto, meno che un padrone; è tutto, meno che una sofferenza; è tutto, meno che una scelta obbligata; è tutto, meno che una serie di comandamenti: è proprio l’esatto contrario! Ci dà un solo comandamento (quello di amare, per cui anche piuttosto piacevole); ci dice che non siamo noi a dover fare una scelta obbligata per o contro di lui, perché è lui che ha scelto noi (e questo ci fa tirare il fiato, perché ci fa capire che Dio esiste e fortunatamente non siamo noi, per cui non è compito nostro salvare il mondo); ci ricorda che le cose che lui ci ha insegnato, ce le ha insegnate per donarci la gioia, e una gioia piena (per cui, sarà il caso di avere facce un po’ meno cupe, tristi e severe, almeno quando si entra e si esce di chiesa, perché vi assicuro che a volte dall’altare si hanno sensazioni poco gioiose…per cui a volte ci si vede costretti e far sorridere la gente dal pulpito); ma soprattutto, non ci chiama più “servi” (anzi, a dire il vero non ci ha mai chiamati servi), ma ci chiama “amici” (e vi dirò che se uno dei più noti cantautori italiani era felice di aver scelto “una donna per amico perché una buona compagna tante volte insegna”, potete benissimo immaginare cosa voglia dire avere “un Dio per amico”!).

Se questo è l’annuncio del Vangelo (del Vangelo letto oggi nella Liturgia, ma in generale di tutto il Vangelo), allora torno a formulare la domanda iniziale: “Perché?”. Perché noi cristiani non riusciamo a manifestare in maniera così evidente che essere seguaci di Gesù, è bello e dà gioia, gioia vera, gioia piena? Forse una risposta ce la può dare la storia, quella storia all’interno della quale la comunità dei credenti, la Chiesa, ha navigato con paura e timore, tirando spesso i remi in barca, ammainando le vele invece di lasciare che lo Spirito le gonfiasse con la sua potenza. E questo avvenne ben presto: terminato il periodo d’oro dell’età apostolica, quello in cui gli apostoli, nonostante le persecuzioni, annunciavano il Vangelo con franchezza e con gioia; quello in cui Pietro e i suoi condiscepoli si resero conto che “Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”; terminato quel periodo, la Chiesa iniziò ad aver paura della forza dello Spirito, iniziò a non fidarsi più di lui, iniziò a pensare che essere discepoli significava che dovevamo scegliere Gesù come Maestro, e non invece l’esatto contrario, ossia che era lui a scegliere noi.

Per cui, scelse la via più immediata: quella del potere. E cominciò a chiudersi, ad arroccarsi, a difendere i propri interessi, a salvare il salvabile, e a chiedere ai potenti di ogni epoca di aiutarla a difendersi e ad arroccarsi sulle proprie posizioni e sui propri diritti acquisiti, fino a perdere – anche se non del tutto, grazie a Dio – il suo spirito missionario, il suo spirito di apertura e di accoglienza, la sua dimensione di fraternità. Per paura di perdere i numeri, invece di aprire le porte perché tutti potessero essere accolti, ha iniziato a chiuderle perché non si perdessero quelli che vi erano entrati. E in questo, noi clericali abbiamo avuto un’enorme parte di colpa. Certo, all’interno della Chiesa ci si sentiva sicuri, sicuri di essere salvi: ma una Chiesa con le porte chiuse non difende chi vi si rifugia, semplicemente lo soffoca. E quando ti senti soffocare, e non stai bene in un luogo chiuso, e vorresti uscire a respirare ma non lo puoi fare perché se lo fai ti senti additato, osservato, giudicato, condannato, alla fine sei rassegnato a stare chiuso dentro: ma non potrai essere felice. Sarai magari anche un bravo cristiano, perché se non esci dai ranghi e non guardi fuori dalla finestra risulta più facile osservare tutti i precetti e i comandamenti: ma non sarai mai un cristiano felice.

Di bravi cristiani ne abbiamo piene le chiese, le comunità, le parrocchie e gli oratori: ma Gesù non vuole bravi cristiani, vuole cristiani felici. Gesù non ha mai detto: “Comportatevi bene e non sbagliate mai, non uscite mai dalle righe”. Gesù, quello che vuole, ce lo ha detto oggi: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena”. Il Vangelo è molto più realista di quanto crediamo: essere bravi cristiani non solo non serve a nulla, ma è davvero impossibile, perché basta che ci guardiamo dentro e vediamo quante miserie abbiamo nel cuore.

Essere felici perché cristiani, invece, non solo è possibile, ma è ciò che serve veramente alla Chiesa per dirsi tale: felici di essere amati da Dio e di avere come unico comandamento quello di amare Dio e i fratelli; felici di non essere schiavi di Dio, ma suoi amici; felici di sentirci non giudicati e condannati, ma abbracciati e accolti; felici di rimanere uniti a Gesù perché solo uniti a lui possiamo portare frutto. Felici di essere Chiesa: perché come è bello tornare a respirare aria pura da un cielo limpido dopo giornate di pioggia, così è bello ascoltare una parola di speranza che ci dice: “Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”.

E allora, che sia Vita!